Dallo Strike Meeting Atto II: per un permesso di soggiorno minimo di due anni

Pubblichiamo il report del workshop Lavoro migrante e sciopero del lavoro migrante, organizzato a Roma in occasione dell’incontro nazionale dello Strike Meeting, Atto II:

striker migrante Nonostante la crisi abbia reso sempre più feroce il ricatto del legame tra soggiorno e lavoro, imigranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di alcune delle esperienze più rilevanti di sciopero, in particolare nei settori della logistica e del lavoro nelle campagne del sud-Italia. Esperienze che, tuttavia, hanno messo in evidenza difficoltà di attivare automaticamente processi di generalizzazione e composizione più ampia in grado di andare al di là delle specificità categoriali o territoriali. Da questo punto di vista la sfida che il processo dello strike meeting ha davanti è quella di accelerare nella costruzione di processi organizzativi in grado di aggredire le specificità della condizione migrante senza cadere nell’errore, frequente nelle esperienze precedenti del movimento antirazzista, di settorializzarla, considerandola cioè come una eccezione rispetto alla comune condizione di precarietà.

Il lavoro migrante è un pezzo centrale del mercato del lavoro e dell’intera produzione contemporanea. Come in passato ha anticipato i processi generali di precarizzazione, così oggi è centrale in tutti i principali laboratori di precarizzazione che abbiamo sotto gli occhi: a partire dalle quote di flussi di ingresso dedicate al lavoro migrante per l’Expo-2015, passando per i processi di misurazione del permesso a punti tarati sul paradigma dell’occupabilità e della formazione continua (che mostra affinità con dispositivi come quello della Garanzia Giovani), finendo al tema dell’accoglienza e del lavoro umanitario e alla precarizzazione e al business che vi sono collegati, che coinvolgono tanto i migranti stessi, quanto gli operatori e le operatrici impiegati in quello che è ormai cresciuto come un vero e proprio settore produttivo.

La sfida dell’organizzazione deve porsi all’altezza dei problemi e delle opportunità connessi ad una forza lavoro sempre più mobile fuori, attraverso e dentro i confini dell’Europa e del lavoro. Affinare l’esperimento dello sciopero sociale significa perciò fare i conti anche con questo pezzo di forza lavoro, da un lato sempre più isolato, dall’altro sempre più coinvolto nei processi di precarizzazione e di accumulazione generale. Per fare alcuni esempi: non è possibile pensare di organizzare lotte nel mondo degli operatori dell’accoglienza che non coinvolgano immediatamente le istanze degli stessi migranti; pensare il problema dello sciopero nell’era della precarietà senza fare i conti col fatto che sempre più frequentemente i centri di accoglienza dei migranti (umanitari) diventano vere e proprie riserve di forza lavoro just-in-time utile per far fronte alle necessità di qualche padrone o padroncino alle prese con uno sciopero; pensare ai “minori non accompagnati” o ad altre “categorie” di migranti senza considerare che questi diventano un attore centrale nell’organizzazione del lavoro di un settore importante quale quello dei mercati generali.

Se il discorso politico dello sciopero sociale deve continuamente aggiornarsi e rinnovarsi attraverso il costante contatto con le questioni poste dal lavoro migrante, quest’ultimo necessita a sua volta di un costante aggiornamento di discorso e di pratiche. Lo sfruttamento sul lavoro e il permesso di soggiorno sono alla base del doppio ricatto cui è sottoposto il lavoro migrante. Accanto a questo, ha preso forma in modo deciso un governo della mobilità su scala europea che, tra legislazioni nazionali, provvedimenti amministrativi continui, restrizioni nell’accesso al welfare e produzione di emergenze umanitarie, ha contribuito a frammentare e individualizzare ancor di più una condizione – quella dei migranti – che per altri versi è sempre più estesa e comune, rendendo così più agevole lo sfruttamento e più complicati i processi di lotta e di autorganizzazione.

La produzione di discorso politico sul lavoro migrante e sul governo della mobilità è una esigenza comune che è stata riconosciuta come centrale da tutti i partecipanti. Affianco a questa, è stata riconosciuta l’esigenza di un salto di qualità dell’intero processo dello sciopero sociale, tanto nelle forme di lotta quanto nello stesso immaginario, per coinvolgere questo pezzo centrale di società dentro la sfida dell’organizzazione e di estensione del contrasto alla precarietà.

Come primo passo in questa direzione è stata individuata la campagna sul permesso minimo di soggiorno di due anni svincolato dal lavoro e dal reddito su scala europea. Con questo non pensiamo di ridurre la complessità del lavoro migrante al permesso di soggiorno, ma di esprimere una posizione netta e decisa rispetto a uno degli strumenti principali del governo della mobilità, per attaccare le differenze e le gerarchie che questo produce per dotarci di nuovi strumenti organizzativi.

Una campagna sul permesso minimo europeo di due anni apre alla possibilità di un maggiore coordinamento e coinvolgimento di esperienze territoriali e parziali di lotta dei migranti, sia rispetto a vertenze sul lavoro, sia per quanto riguarda le tante situazioni che vedono i movimenti dei migranti scontrarsi con il razzismo istituzionale e la discrezionalità amministrativa di Questure e Prefetture. In continuità con l’intero percorso dello sciopero sociale, non si tratta soltanto di produrre comunicazione tra le lotte esistenti, quelle dei migranti e non solo, ma di dotarsi degli strumenti attraverso i quali poter innescare nuovi interventi sulla questione migrante da parte dei protagonisti dello strike meeting e di un allargamento del discorso dello sciopero sociale ad altri soggetti non ancora coinvolti, connettendo il piano locale delle lotte con la dimensione europea.

Traddo da dal blog dello Sciopero Sociale