L’insubordinazione conta. Il razzismo dei documenti, la violenza della polizia e il rifiuto di Denis

Sarebbe bastato mostrare i documenti e nessuno gli avrebbe messo le mani al collo. Così il questore di Vicenza ha giustificato l’agente di polizia che ha aggredito e buttato a terra Denis Jasel Guerra Romero, un migrante cubano, operaio di 21 anni, “colpevole” di passeggiare a non troppa distanza da una rissa pur avendo la pelle nera. Sono disattenzioni che un migrante non dovrebbe mai commettere in Italia. Né certo dovrebbe poi rifiutarsi di mostrare i documenti, ribellandosi alla sua identità di uomo nero e quindi di potenziale delinquente. A molti la presa al collo del poliziotto ha fatto venire in mente le più tragiche immagini della fine di George Floyd. Non al questore di Vicenza, evidentemente, il cui lavoro in fondo consiste anche nel far rispettare le leggi razziste di questo paese.

Che al questore manchi il senso della realtà non ci stupisce. Non tanto perché c’è sempre una copertura dall’alto per le aggressioni della polizia, che quando colpisce i migranti abbandona anche i tentativi maldestri di trovare scuse di fantasia per offrire ai razzisti lo spettacolo dell’umiliazione pubblica di chi ha una pelle di colore diverso. Ma perché in fondo è vero: la ragione della violenza razzista sta nei documenti. I documenti stabiliscono per legge il colore di uomini e donne e i differenti trattamenti che devono essergli riservati. Se di norma un italiano che rifiuta di mostrare i documenti non si ritrova le mani al collo di un poliziotto lo deve anche al privilegio dei suoi documenti “bianchi”. E, d’altra parte, se la permanenza di Denis in questo paese non fosse legata a un permesso di soggiorno, nessun agente gli avrebbe chiesto di mostrarlo, né avrebbe giocato a fare il poliziotto cattivo che deve ricorrere alle maniere forti per ristabilire la gerarchia tra bianchi e neri.

Ci sono catene fatte di carta che accompagnano giorno dopo giorno la vita dei migranti. Tentano di strozzarne il respiro con la minaccia della clandestinità che colpirà chi, dopo il 31 agosto, scaduta la sospensione dei rinnovi dei permessi, si ritroverà senza lavoro in un’Italia dove la disoccupazione cresce, le commissioni territoriali continueranno a sfornare dinieghi e la regolarizzazione si è rivelata un fallimento. Non mostrando i propri documenti, Denis ha non solo rivelato quanto sfacciato sia il razzismo della polizia, ma ha rifiutato le condizioni e le catene che il permesso di soggiorno stabilisce ogni giorno sulla sua vita.

Denis è stato processato per direttissima e condannato. Nulla invece è stato contestato al poliziotto, che si è fatto dare pure tre giorni di prognosi dall’ospedale probabilmente per farsi curare il suo orgoglio ferito di uomo bianco. Non crediamo all’indagine interna promessa dal questore, che non ha avuto neanche la decenza di avviarla ed è già arrivato alla conclusione che “nessuno dei miei uomini ha comportamenti razzisti”. Non ci interessano neanche i formalismi della legge: per noi il reato che gli viene contestato è quello di essere un migrante che vive sotto il ricatto dei documenti. Per noi è il suo gesto di insubordinazione che conta. Come contano le tante altre insubordinazioni di cui i migranti sono stati capaci in questi mesi di pandemia, non da ultimo la fuga di 150 migranti dal sovraffollato centro di accoglienza di Agrigento per via di un’altra norma razzista che impone ai migranti in arrivo in Italia una quarantena di 14 giorni che a nessun turista viene richiesta. Mentre navi quarantena si avvicinano minacciose alle coste meridionali e la ministra Lamorgese dichiara che i migranti sbarcati nell’ultimo mese verranno rispediti a casa, noi sappiamo che avremo bisogno di ogni gesto di insubordinazione, di ogni singolo rifiuto del ricatto dei documenti, per combattere la seconda ondata del razzismo democratico al governo.

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