Non in nome del femminismo: un intervento di Sofia Orr (Mesarvot Network) sulla guerra in Palestina

Pubblichiamo di seguito l’intervento di Sofia Orr, della rete Mesarvot (una rete di sostegno ai giovani che rifiutano il servizio militare obbligatorio in Israele, che collega diverse iniziative e gruppi per un’azione congiunta contro l’occupazione israeliana), all’evento organizzato da Assemblea Donne del Coordinamento Migranti del 17 novembre “Dall’Ucraina alla Palestina al 25N, per un’opposizione femminista e migrante alla guerra“, dove abbiamo discusso di come la guerra stia rendendo la violenza, il razzismo, lo sfruttamento e l’impoverimento dei fatti normali, e di come il rifiuto della guerra debba essere oggi il terreno principale della nostra lotta contro la violenza patriarcale e razzista. Sofia Orr ha partecipato anche all’assemblea “Rifiutare la normalizzazione della guerra, per una politica transnazionale di pace” organizzata dalla Permanent Assembly Against the War durante il meeting della Transnational Social Strike Platform a Bologna lo scorso 28 ottobre.

Giovani di Mesarvot bruciano le loro lettere di arruolamento, Aprile 2023.

Mi chiamo Sofia Orr, ho 18 anni e sono un’obiettrice di coscienza israeliana. Faccio parte della rete Mesarvot, che si traduce in italiano “ci rifiutiamo”. Si tratta di una rete che sostiene le persone che rifiutano di arruolarsi nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per motivi politici – persone come me. Ci sforziamo di rendere l’opzione del rifiuto più presente nel dibattito pubblico, da cui ora è quasi del tutto assente, come parte del nostro sforzo di andare verso una pace giusta per tutti i popoli dal fiume al mare. Ci definiamo molto chiaramente come una rete femminista. Anche il nostro nome, “Mesarvot”, è di genere femminile plurale (l’ebraico è una lingua di genere).

Vorrei prima spendere qualche parola sulla strumentalizzazione del femminismo e dei diritti umani in Israele, e poi spiegare la mentalità israeliana riguardo ai bombardamenti incessanti e indiscriminati su Gaza e sulla sua popolazione, e alla violenta invasione di terra. Il femminismo nel contesto dell’IDF è molto molto distorto e complicato. Qui in Israele, le donne che si arruolano nell’esercito si considerano, e sono considerate dagli altri, come se stessero compiendo un atto femminista perché dimostrano di poter fare esattamente ciò che fanno gli uomini. Penso che ci sia un certo merito nello sfidare le aspettative della società come atto di femminismo, specialmente in un sistema molto maschilista e sciovinista (שובניסטיק) come l’IDF. Ma in questo caso le donne non stanno solo lottando per la parità di diritti e contro l’oppressione. Stanno lottando per il diritto di poter opprimere e fare violenza sugli altri, il che richiede loro di assecondare una mentalità tossica e molto stereotipata “maschile”. Non vedo come lottare per il diritto di diventare un oppressore possa essere un atto femminista. Credo che il vero femminismo sia lottare contro tutti i sistemi oppressivi, tutti gli squilibri di potere, tutte le discriminazioni. Come ha detto MLK: “L’ingiustizia, da qualunque parte si trovi, minaccia la giustizia ovunque“.

Una distorsione simile può essere vista con la comunità LGBTQ israeliana. In questa guerra Israele cerca di spacciarsi per promotore dei diritti LGBTQ e delle donne, ma in realtà ha passato l’ultimo anno a fare il contrario, sia in Israele che in Palestina. C’è un chiaro uso strumentale da parte di Israele sia delle donne che della comunità queer per legittimare l’occupazione e presentare Israele come uno Stato progressista, nascondendo gli orrori che compie.
Ad esempio, da un lato l’IDF attua nei confronti dei palestinesi omosessuali politiche crudeli e omofobiche di estorsione, minacciando di farli fuori se non collaborano. E al tempo stesso pubblica l’immagine di un soldato che tiene in mano una bandiera dell’orgoglio all’interno di Gaza bombardata con su scritto “in nome dell’amore”. Come se tutti i palestinesi, donne o queer, dovessero dire “grazie”, come se io dovessi dire “grazie”. Usare noi, donne e persone queer, per presentare questa guerra e l’esercito in generale come “illuminato” è immorale, strumentale e di fatto sbagliato. Rifiuto che la mia identità venga usata da Israele come strumento per supportare la sua guerra, per poi tornare e calpestare i miei diritti quotidiani. Rifiuto di lasciare che l’oppressione e la violenza vengano perpetrate in mio nome, e, secondo quanto dichiarato, in nome della liberazione e dell’uguaglianza.


Vorrei anche parlare della guerra e di ciò che sta accadendo in Israele. La mentalità comune in Israele, sia tra la gente comune che tra i dirigenti, è che ciò che non viene risolto con la violenza sarà risolto con ancora più violenza. Per anni, più e più volte, ad ogni operazione militare e ad ogni guerra, il governo ha dichiarato: “questa volta distruggeremo finalmente Hamas!”. Ancora, e ancora e ancora. E in questa guerra non è diverso. Questa strategia non porta da nessuna parte. Non esiste una soluzione militare a un problema politico. La leadership israeliana, e la maggioranza degli israeliani, credono che il raggiungimento dell’obiettivo di distruggere Hamas giustifichi il sacrificio di tutte le vite palestinesi innocenti necessarie. Questo è crudele, razzista ed è l’esito della disumanizzazione dei palestinesi. Inoltre non funziona. Hamas nella Striscia di Gaza è più di un movimento, è una mentalità che trae il suo potere direttamente dalla mentalità oppressiva israeliana. Né Hamas né le cose orribili che ha fatto il 7 ottobre sono avvenute nel vuoto. Sono il risultato diretto della mentalità israeliana dominante della missione a “sconfiggere”, usare la forza e soluzioni militari invece di negoziare, collaborare e lavorare per la pace. L’aumento di popolarità e di potere di Hamas è in diretta correlazione con l’assedio, l’oppressione e le politiche di apartheid che Israele attua a Gaza e nei territori occupati.

Questa guerra, come tutte le guerre, ci dimostra che la violenza porta solo ad altra violenza e che i gruppi estremisti violenti si rafforzano con la violenza estrema. Anche se Israele riuscisse a sradicare Hamas, l’insopportabile costo umanitario che ciò comporta porterà inevitabilmente all’ascesa di un altro Hamas, o peggio. Non giustificherò mai il terribile massacro compiuto da Hamas. Ma solo esaminando la situazione all’interno del contesto più ampio che ha portato a questo particolare orrore, possiamo evitare che se ne ripetano altri. Israele deve capire che, dal momento che è la parte più forte, l’oppressore, è soprattutto sua la responsabilità di cercare una soluzione politica. È l’unico modo per vedere e realizzare un futuro condiviso, pacifico e sicuro.

Questo messaggio non può essere facilmente trasmesso in Israele in questo momento. C’è una forte repressione nei confronti di ogni voce che si leva contro la guerra. Le persone che vengono prese maggiormente di mira sono i cittadini palestinesi di Israele che osano esprimere empatia nei confronti degli innocenti di Gaza. Questa oppressione comprende licenziamenti, espulsioni dalle università, arresti e violenze da parte della polizia. In misura minore, ma comunque molto importante, questo vale anche per gli ebrei israeliani che si oppongono pubblicamente alla guerra. Siamo tutti messi a tacere. Veniamo tutti bollati come “sostenitori del terrorismo”. I palestinesi sono “parte del nemico” e gli ebrei di sinistra sono “traditori”. È molto, molto difficile e spaventoso in questo momento essere un’attivista contro l’occupazione e la guerra in Israele. Il fascismo, che era già in forte ascesa, sta ora traboccando, e il silenzio, l’odio e la violenza sono al culmine sia da parte del governo e delle altre autorità, sia da parte dei cittadini stessi. Eppure è importante alzare comunque la voce, e alzarla insieme: palestinesi ed ebrei. Per questo stiamo protestando, scrivendo e facendo sentire la nostra voce ogni volta che possiamo. I nostri numeri sono sempre stati piccoli, e ora sono più piccoli che mai. Molte persone che fino a poco tempo fa si definivano pacifiste ora dicono che la guerra è l’unica opzione: “o noi o loro”. La sinistra radicale in Israele non è mai stata così poco numerosa. Ma noi ci siamo, e faremo quello che possiamo.

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