L’8 marzo sarà sciopero femminista anche nella logistica. Le donne migranti, che in alcuni magazzini rappresentano la gran parte della forza lavoro, porteranno in piazza la loro lotta allo sfruttamento che è allo stesso tempo una lotta contro il patriarcato e le costrizioni familiari, una lotta contro il razzismo e per essere “libere di muoversi e di viaggiare per il mondo”. In questa intervista, Abrar, originaria del Marocco, racconta delle sue esperienze lavorative in Italia, dallo sfruttamento estremo nella fabbrica di ceramiche, alle tante difficoltà della mediazione culturale in un contesto di razzismo istituzionale diffuso, fino alla logistica, dove lo sfruttamento delle cooperative e delle aziende mette in pericolo la vita e la salute delle lavoratrici e dei lavoratori e cerca di dividerli, ricattando chiunque decida di alzare la testa e scioperare. Abrar parla anche della sua lotta per l’autonomia dentro casa, per convincere suo padre a riconoscere l’importanza e il valore del suo coraggio e della sua libertà, e fuori casa contro il razzismo sempre più sdoganato da questo governo. Il lavoro di mediazione con le donne migranti che hanno subito violenza le ha permesso di conoscere dall’interno esperienze di oppressione e di lotta che travalicano i confini tra gli stati, le religioni, le comunità. Abrar ci dice che la voce delle donne fa paura agli uomini che costruiscono la loro forza sulla subordinazione sessuale: la violenza è il tentativo di metterle a tacere. Ma le migranti non stanno zitte e l’8 marzo, insieme alle donne di tutto il mondo, sciopereranno e scenderanno in piazza contro lo sfruttamento, la violenza patriarcale e il razzismo, per mostrare la loro forza inarrestabile e la loro voglia di libertà, contro la paura e contro l’oppressione.
Quando sei arrivata in Italia? Che esperienze di studio e lavoro hai avuto?
Sono arrivata a 18 anni, nel 2003. Ho fatto un po’ fatica a integrarmi. Siamo venuti qui con il ricongiungimento familiare. Qualcuno è andato a scuola, qualcuno a lavoro. Io sono andata a scuola per 6 mesi, ma non sono riuscita a proseguire per la lingua. Vivevamo in montagna e c’erano possibilità limitate di fare un corso di italiano. Andavo alle superiori, ma non capivo niente quindi facevo solo inglese, matematica, fisica ed educazione fisica, le altre materie rinunciavo a studiarle. Pensavo di essere l’unica che non riusciva a imparare l’italiano. Sono andata a scuola per 6 mesi ma non ho ricevuto nessun aiuto a scuola per apprendere la lingua. Sono dovuta rimanere a casa. Il mio primo lavoro è stato nel volontariato dove ho imparato anche l’italiano. Lavoravo in ambulanza con dei giovani che piano piano mi insegnavano le parole. Ho imparato così l’italiano, non a scuola. Poi ho cominciato a lavorare nelle fabbriche di ceramiche, nella zona di Modena. È un lavoro faticoso, soprattutto per le donne: ci sono le piastrelle, le mattonelle, i pesi… ma era l’unico lavoro che si trovava. Eravamo trattate malissimo in azienda perché ti facevano fare di tutto, non ti facevano fermare neanche un secondo. Se il datore di lavoro o il capo ti vedeva ferma ti diceva: cosa fai? Non puoi neanche prenderti una bottiglia d’acqua. Devi sempre continuare a lavorare e quando arrivi a casa sei morta, non ce la fai neanche a prepararti da mangiare.
Ho fatto questo lavoro fino al 2009, quando è iniziata la crisi e ho perso il posto. Ho fatto domande ovunque ma non c’era niente. C’era solo il tirocinio formativo, per 6 mesi ti danno più o meno 500 euro. Ho iniziato a lavorare in un ufficio in cui venivano i migranti a chiedere informazioni per il permesso di soggiorno, a chiedere aiuto o a parlare con l’assistente sociale. Da lì ho iniziato a capire i problemi degli stranieri. Dopo 6 mesi il mio capo ha voluto tenermi perché spesso arrivavano persone che non capivano l’italiano. A volte venivano delle mamme che avevano subito violenza e volevano parlare con l’assistente sociale ma, non conoscendo la lingua, non sapevano come spiegarsi e chiedere sostegno. Quando arrivavano e vedevano una straniera che parlava la loro lingua erano molto contente e iniziavano a sfogarsi, a parlare. C’è sempre un po’ di paura. Non dicono tutta la verità, ma è già un passo se ti raccontano qualcosa, ti fanno capire che a casa loro c’è un problema e che subiscono violenza. Noi accoglievamo queste donne e facevamo delle sedute. Spesso preferiscono farle in orari in cui il marito non c’è perché è a lavoro, per non fargli sapere niente. Una donna in questa situazione ha sempre paura che il marito si accorga che si è rivolta all’assistente sociale, perché non sa l’italiano, teme che il marito le tolga i documenti, non conosce la legge italiana – ancora di più se ci sono dei bambini di mezzo. Ho lavorato un anno come assistente sociale e poi ho conosciuto una persona che lavora nel centro stranieri. Mi ha chiesto di entrare in un’agenzia di mediatori culturali a Modena. Ho fatto un corso, ho passato l’esame e preso l’attestato di mediatrice culturale. Questa esperienza è durata fino al 2016. Poi mi sono trasferita a Bologna e ho cambiato lavoro. Ho contattato tante agenzie che lavoravano nel campo della mediazione a Bologna, ma non ho avuto nessuna risposta. Allora sono entrata a lavorare nei magazzini.
Come è il lavoro nei magazzini?
Con i colleghi mi trovo bene e anche il lavoro mi piace, ma le condizioni di lavoro dentro i magazzini non sono adatte per lavorare. D’inverno nello stabilimento ci sono -6 gradi. Lavoriamo con giacca, guanti, sciarpa… come se fossimo su una montagna di gelo. D’estate ci sono 50 gradi, dato che i magazzini sono fatti tutti di metallo e si surriscaldano con il sole che batte. Una ragazza straniera è stata trattata malissimo, perché ha rivendicato i suoi diritti. Se lo fai, i capi ti mettono in punizione. D’estate l’hanno messa a lavorare ai piani con 50 gradi, non si respirava. Lei pesa 45 kg, è magrissima, non sopporta il caldo e ogni anno viene l’ambulanza e la ricoverano per 2 o 3 mesi in ospedale. Da quello che mi raccontano i colleghi, da 3 anni succede la stessa cosa. La mettono a fare lavori duri, imballaggi pesantissimi. Soprattutto d’estate, il prelievo lo fanno fare solo agli uomini, ma a lei vengono comunque assegnate queste mansioni per punizione, per non farle aprire la bocca e non farle fare sciopero. Quando questa ragazza si è sentita male è uscita dalla corsia ed è svenuta. Un ragazzo straniero l’aveva vista ma pensava si fosse seduta per riposarsi, chiedendosi cosa sarebbe successo se l’avessero vista i padroni. Ma dopo 20 minuti, lei era ancora in quella posizione. Il collega ha capito che c’era qualcosa che non andava. L’ha chiamata, ma lei non ha risposto. Lui è tornato indietro di corsa e ha chiamato l’ambulanza.
Però i capi non vengono a fare il lavoro che facciamo noi. Se lavorassero ai piani, anche solo per un’ora, non ce la farebbero. Una volta, in estate, con la ditta in ferie, è arrivato un mucchio di lavoro e uno dei nostri capi si è messo a fare i prelievi di sotto – non è nemmeno andato sui piani. Non ce l’ha fatta neanche per mezz’ora. Invece noi dobbiamo fare tutto. Soffriamo il freddo, tanto che non sentiamo più la punta dei piedi. Abbiamo chiesto un po’ di riscaldamento, delle stufette che si mettono in ufficio sotto ai piedi, tanto abbiamo le prese e almeno possiamo resistere a lavorare. Hanno detto di no, per motivi di sicurezza. Se cadono, ci sono i cartoni e possono prendere fuoco. A volte hai le mani così ghiacciate che non riesci neanche a chiudere le scatole. D’estate abbiamo le finestre che non si aprono molto. D’inverno abbiamo le finestre un po’ aperte, non si chiudono e il freddo entra. Sono bloccate o rotte… Allora abbiamo fatto sciopero. Durante lo sciopero, la scorsa estate, quando la ragazza di cui ho parlato prima è caduta, è venuta l’ASL per fare un sopralluogo. Quando i padroni hanno saputo che la ragazza aveva sporto denuncia e sarebbe intervenuta anche l’ASL sono intervenuti a mettere a posto le finestre, ma niente di più. Anche quest’anno abbiamo scioperato per i nostri diritti, sia per il troppo caldo che per il troppo freddo. Non chiediamo tanto, chiediamo di poter lavorare almeno in condizioni giuste. Anche per quanto riguarda i livelli. Faccio lo stesso lavoro di chi lavora da 15 anni, ma almeno ha lo scatto di anzianità. I livelli devono essere adeguati a tutti. Facciamo lo stesso lavoro. Fino ad adesso non hanno voluto rispondere. La colpa è sempre nostra, perché parliamo troppo, vogliamo troppo, nessuno ci vuole ascoltare.
C’è differenza di trattamento tra migranti e non?
Usano due pesi e due misure. Non vorrei dire che c’è del razzismo, ma se dico: “quest’anno vado nel mio paese, voglio un mese”, non me lo danno. Io ho 4 settimane e tutto l’anno lavoro come una macchina e non consumo le ferie. Ma non mi danno le 4 settimane che mi spettano. L’anno scorso ad agosto ho chiesto un mese perché avevo urgenza di tornare nel mio paese. Non sapevo se sarei riuscita a risolvere il mio problema in due settimane, perché si parla di documenti e pratiche da mettere a posto. Mi hanno risposto che dovevo prendermi due settimane, tornare a lavoro per una settimana e poi di nuovo in ferie. Ma io da loro prendo 1000 euro per 8 ore al giorno. Non posso permettermi di pagare questi viaggi. Lavoro tutta la settimana, con sabato e domenica libero, a volte chiedono di lavorare anche il sabato. Ho visto però che ad alcuni uomini stranieri venivano date più ferie perché non sono iscritti al sindacato. Se ti iscrivi a un sindacato che non è quello che vogliono i padroni, ti dicono: “preparati alla guerra”. Fanno addirittura delle proposte per far disiscrivere la gente dai Cobas: “vuoi un premio, o un innalzamento di livello, o la maglietta? Allora ti devi cancellare dal sindacato”. Io non mi faccio comprare con una maglietta per avere 50 euro in più. Devo venire mezz’ora prima e andar via mezz’ora dopo. Se c’è un’urgenza devo venire… Ci guadagnano solo loro. E poi non c’è mai una busta paga corretta. Sempre errori, sempre qualcosa che non va. Sono loro che ci spingono ad andare dal sindacato! Se vado dalla responsabile delle buste paga, questa cerca sempre una scusa per non ammettere che hanno sbagliato a fare il conteggio delle ore. È normale che mi iscrivo a un sindacato che non sta dalla parte dei padroni, almeno mi fa i conti giusti. Una volta ho dovuto cambiare il numero del conto in banca. Li ho avvisati di non farmi il bonifico sul conto vecchio, ma la responsabile ha fatto il versamento al conto sbagliato. Per un mese non ho avuto soldi, finché non potevo neanche pagarmi la benzina per andare a lavoro. Ho dovuto mettermi in malattia. Non potevo continuare a chiedere prestiti per andare a lavorare. Non ho mai ricevuto risposta alle mie richieste di risolvere la questione. Ho fatto presente che non avevo neanche i soldi per andare a lavorare. Allora mi sono iscritta al sindacato, che un venerdì ha mandato una lettera all’azienda chiedendo spiegazioni e minacciando una denuncia penale. Il martedì contattano i Cobas dicendo che hanno risolto il problema e hanno fatto il bonifico. Tra un po’ scommetto che me la faranno pagare, ma sono forte e non ho paura. Hanno fatto così con tutti. Durante lo sciopero di una settimana fa, uno della cooperativa ha detto: “perché vi iscrivete ai Cobas? Se avete dei problemi, venite a parlare con noi. Inutile fare sciopero: venite e parliamo”. Ma avevamo mandato innumerevoli lettere per la questione del freddo e del caldo nei magazzini, o delle scarpe… Ci danno scarpe da 10 euro, che si rompono dopo un giorno o ti fanno venire le bolle sotto i piedi. Dobbiamo anche pagarci i vestiti con cui lavoriamo. Quando si usurano, dobbiamo comprarne altri. Paghiamo scarpe, magliette, felpe, giubbotti… Questa azienda cosa fa per noi? Niente. Ci sfrutta. Però la maggior parte della gente sta zitta, ha paura.
Secondo te le lavoratrici nel magazzino sono ricattate anche in quanto donne?
Ci sono stati episodi di violenza sessuale, oltre al fatto che ti assegnano dei lavori insostenibili per farti capire che la prossima volta devi chiudere il becco. Io lavoro in magazzino solo da un anno, ma durante uno sciopero ho saputo da alcune colleghe che lavorano qui da 7 anni, 12 anni, che c’è violenza dentro il magazzino. Per me anche il caso della ragazza di cui abbiamo parlato prima, che è svenuta sui piani e nessuno l’ha vista, è un episodio di violenza.
Lo sciopero dell’8 marzo è anche una risposta alle politiche razziste del governo, che aumentano lo sfruttamento e la violenza sulle donne perché ne indeboliscono la posizione. Cosa pensi di quello che sta accadendo con il Decreto Salvini?
Se io lavoro e rispetto il paese in cui vivo, pago i contributi, le tasse come gli altri, perché togliermi il permesso di soggiorno? Se me lo togli vuol dire che sei razzista. Vuoi eliminare i migranti? Non è possibile. Noi migranti siamo ovunque. Anche gli italiani sono emigrati in America, sono stati i primi. In Germania trovi una marea di italiani. Anche oggi, perché non c’è lavoro, gli italiani sono ovunque.
Pensi che questo governo, anche con la sua politica contro i rifugiati, abbia alimentato il razzismo?
Molto. Ha creato odio tra la gente. Anche mio padre è arrivato con la barca. Ha vissuto una settimana in mare. Non aveva lavoro, ci manteneva il nonno. Mio padre ha rischiato la sua vita. Quando è sbarcato in Italia, non sapevamo neanche dove fosse. Pensavamo che fosse in Tunisia a cercare lavoro. Mia madre ha perso la testa, non sapeva se era vivo o morto. Mio padre non aveva documenti in tasca, né un numero di telefono da chiamare. Ha passato un brutto momento. Nessuno ha fortuna appena arrivato. Bisogna iniziare da zero, è difficile.
Questo governo vuole dividere i migranti che sono qui da tempo da quelli che sono appena arrivati, per creare gerarchie e indebolire tutti…
Quando mio padre mi racconta la sua storia, mi metto a piangere. Non so come ripagarlo per quello che ha fatto per me. Mi ha lasciato che avevo 9 anni. Non ho ricordi di mio padre fino ai miei 15/16 anni. Ha sempre lavorato in Libia e in Tunisia, andava a lavorare là un anno e poi tornava a casa. Quando gli scadeva il visto, tornava indietro. Alle scuole elementari, quando mi chiedevano di lui, potevo solo immaginarlo dalle foto. Quando è tornato, era un po’ cambiato, come se fosse invecchiato. Prima di partire aveva i capelli neri, quando è tornato li aveva tutti bianchi. L’ha passata brutta. Non è facile iniziare da zero, come se fossi appena nato. È arrivato in Italia come un orfano, senza mamma né papà. Come un bambino buttato in mezzo alla strada, senza avere nessuno. Quando è sbarcato, ha dormito sugli scogli, d’inverno al freddo per 10 giorni. Poi è stato trasportato al centro [di accoglienza]. Lui voleva solo lavorare. Ha avuto un contratto di lavoro e ha ottenuto i documenti. Poi ha fatto il ricongiungimento familiare dopo 2 anni, perché non voleva vivere lontano dai suoi bimbi. In classe ero l’unica marocchina, mi hanno accolto con amore, non ho visto nessun razzismo. Secondo me non c’era razzismo allora. Era il 2004 e vivevo in campagna, la gente ti stava vicino. Adesso no.
Perché scioperi l’8 marzo?
Sciopero per avere i nostri diritti in quanto donne. Abbiamo sangue nelle vene, siamo umane, non possono sfruttarci come vogliono loro. Abbiamo due gambe e due mani. Non siamo animali. Voglio prendere parola per dire che siamo uguali. Sciopero contro la violenza. Ho visto storie diverse quando lavoravo con gli assistenti sociali e ho raccontato quei problemi a casa, ne ho parlato con mia mamma. Io non sono una casalinga, sono ancora giovane, voglio lavorare e viaggiare. Vorrei andare in tutto il mondo. Quando raccontavo a mia mamma le storie di donne in cerca di aiuto, le chiedevo come aiutarle. Mia mamma poteva aiutarmi a capire meglio la situazione, avendo vissuto in Marocco come alcune di quelle donne. Io non ho vissuto tanto in Marocco, solo fino a 17 anni, ma andavo a scuola. Non conoscevo i problemi delle donne maltrattate dagli uomini, dai loro uomini, o dal suocero, ma sempre e comunque da uomini. Da noi c’è una cultura secondo cui è l’uomo che comanda. C’è ancora tanta violenza nel nostro paese. Anche se il diritto dice che le donne non si possono toccare, le donne hanno paura, stanno zitte, vengono maltrattate: violenza sessuale, sul corpo, verbale, con le minacce… Non è solo in Marocco, però io ho vissuto i problemi delle donne arabe qui. Quando le portano qui dai loro paesi, i mariti non danno alle mogli la possibilità di uscire di casa e integrarsi. Perché se ti integri e sai la lingua, diventi autonoma, fai quello che vuoi. Se non sai la lingua, fai quello che dice lui. Molte donne pensano: “Se non faccio quello che dice lui, non mi paga l’affitto, mi picchia, mi toglie i documenti, mi spedisce al mio paese”. O banalmente non ti porta da mangiare. Capita spesso. A volte il marito, quando litiga con la moglie, non porta la spesa a casa. Lui mangia fuori prima di entrare a casa e lascia la moglie senza mangiare. Pensano che se la moglie impara l’italiano, lei può andare in giro per il mondo, sperimentare la libertà e poi finisce che sia lei a comandare su di lui. Loro hanno paura. L’uomo ha la paura come sua debolezza. Può urlare finché vuole ma non serve. Anche mio padre, quando siamo venuti qua, aveva paura che io un giorno avrei cominciato a uscire e a drogarmi, a fumare, ad andare a ballare. Una donna che fuma o si droga da noi è un cattivo esempio. Mio padre non mi faceva uscire, perché aveva paura di questo. Andavo a scuola e tornavo, se dovevo uscire, uscivo con loro. Per me le amiche non esistevano. Una volta mi ha ordinato di mettere il velo. Io lo portavo, ma solo davanti a lui. Una volta eravamo usciti a fare la spesa, era estate, e sono uscita senza velo. Lui mi ha chiesto: “cosa fai? dov’è il velo?” Gli ho detto: “papà, non lo voglio mettere. Se mi obblighi, faccio finta. Non l’ho mai portato davvero, a scuola andavo senza velo”. Gli ho detto la verità perché doveva capire. Mia madre ha pensato che fosse finita per me, aveva paura che mi rispedisse in Marocco immediatamente.
Mio padre c’è rimasto male. Non mi ha parlato per un mese, ma poi ha capito. Gli ho fatto capire che deve essere una scelta mia. Non volevo prenderlo in giro. Devo essere sicura di me stessa, delle scelte che faccio. Nel 2015 ho provato a mettere il velo. L’ho portato per un anno, per fare una prova. Quando sono venuta a Bologna con il velo ho fatto fatica a trovare lavoro. Ovunque mi presentassi mi rifiutavano. Mi dicevano che mi avrebbero fatto sapere. Dicevo che se era un problema a lavoro non l’avrei indossato. Mi rispondevano che per loro non era un problema, ma di fatto non mi chiamava nessuno. Ho visto posti in cui avevano davvero bisogno di me ma quando mi vedevano avevano già deciso. Metti il velo e cambia tutto da un giorno all’altro, anche con gli amici, la vicina di casa, sempre tanto affettuosa, non ti saluta più. Per me l’8 marzo è questo: i nostri diritti. Voglio prendere parola per dire che siamo uguali e basta violenza.