Il lavoro migrante e il rifiuto politico delle catene della regolarizzazione

La regolarizzazione a tempo determinato non sta dando i risultati che il governo aveva previsto e sbandierato come prova del suo impegno contro il lavoro nero. Fino a qualche settimana fa, la fantasia governativa vedeva l’emersione dal nero di centinaia di migliaia di lavoratori. La realtà è tuttavia diversa, allo stato attuale si tratta di circa 80 mila domande, in grande maggioranza legate al lavoro di cura e domestico. Padroni e padroncini dell’agricoltura e del suo indotto preferiscono continuare a non pagare le tasse e sfruttare il più possibile il lavoro migrante. Il governo si è affrettato a prolungare la possibilità di fare domanda fino al 15 agosto, ma per quanto le domande stiano aumentando difficilmente i numeri previsti all’inizio saranno raggiunti. La ministra Bellanova, dopo aver pianto dalla commozione mentre annunciava le sue cifre esorbitanti, adesso dice senza vergogna che anche un solo migrante regolarizzato è da considerarsi un successo. Un obiettivo minimo, realistico e miserevole, dinnanzi alla scelta che donne e uomini migranti stanno compiendo in massa: il rifiuto di una regolarizzazione che lega in modo stringente il permesso di soggiorno al lavoro.

Per le donne e gli uomini migranti che fin dall’inizio hanno criticato la regolarizzazione questi pessimi risultati non hanno niente di sorprendente. La possibilità di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo è limitatissima, non soltanto perché riguarda solo coloro il cui permesso è scaduto dopo il 31 ottobre, ma anche perché non è facile dimostrare di aver lavorato in agricoltura o nell’assistenza alla persona dove spesso si viene reclutati senza contratto o in modo saltuario. Le pratiche per l’emersione del lavoro in nero sono invece completamente in mano alle imprese che dovrebbero denunciare la loro irregolarità in settori dove l’irregolarità è la normalità dello sfruttamento [clicca sui link per scaricare le schede informative sulle due modalità della regolarizzazione per accedere al permesso temporaneo e al permesso per lavoro]. Dai padroni dipende infatti il “contratto di soggiorno”: un’arma di ricatto – inventata dai governi delle destre e oggi restaurata dalle forze “democratiche” di questo governo – che viene usata per imporre ai migranti di pagare tasse e contributi al posto delle imprese. Il governo ha ampliato il potere di sfruttamento dei padroni che indisturbati raccolgono gratuitamente i frutti delle leggi Salvini e Bossi-Fini. La regolarizzazione ha aperto un mercato nero dei documenti, grazie al quale il comando sul lavoro migrante è ancora più ferreo. Per un contratto si chiedono ai migranti diverse migliaia di euro e succede anche che il padrone sia talmente gentile da prestarli, acquisendo così un credito futuro che dovrà essere ripagato con l’assoluta disponibilità al lavoro, per qualsiasi salario, con qualsiasi orario e in qualsiasi condizione: se un migrante regolarizzato decide di interrompere il rapporto di lavoro, la legge prevede che venga meno anche il permesso di soggiorno. Questo è il regime di sfruttamento che la regolarizzazione vuole imporre e che i migranti stanno rifiutando in massa.

Le donne e gli uomini migranti sanno perfettamente che questa regolarizzazione non è altro che una legalizzazione del caporalato pubblico per tutelare quello privato. Si rifiutano dunque di mettersi alla ricerca di documenti, di pagare per restare. Non vogliono contrarre alcun debito perché sanno che dopo qualche mese si troverebbero di nuovo in clandestinità. Anche quando decidono di fare domanda per la regolarizzazione, non cadono nella trappola che alcune questure stanno organizzando chiedendo di rinunciare alla domanda di asilo. Nonostante le commissioni territoriali continuino a dare dinieghi, l’asilo è la strada che continuano a percorrere per sottrarsi al ricatto del permesso di soggiorno legato al lavoro. Dinnanzi al loro rifiuto non è possibile rivendicare soltanto l’ampliamento della regolarizzazione ad altri settori. Il problema non è semplicemente il limite della regolarizzazione, ma il comando che questa vuole esercitare sul lavoro migrante, sulla sua pretesa di autonomia e di libertà di movimento. Per questo, coordinamenti migranti e collettivi di sans papiers sono scesi in piazza nelle ultime settimane non solo in Italia e in altre città europee, ma anche in Marocco, Turchia e Libano. La loro lotta transnazionale per un permesso di soggiorno europeo incondizionato e illimitato è la risposta politica contro l’Europa e i suoi Stati, contro le politiche comunitarie, le leggi nazionali e gli accordi internazionali, che cercano di incatenare i migranti a un lavoro sempre più povero. È il progetto politico di organizzare il rifiuto che donne e uomini migranti già praticano quotidianamente contro il razzismo istituzionale e le condizioni politiche dello sfruttamento imposte dai governi.

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