Tra Nador e Melilla: il movimento dei migranti e l’ordinaria violenza dei confini

Un’inchiesta pubblicata martedì fa nuova luce sulla violenza che ha causato la morte di almeno ventitré migranti e la sparizione di altri settantasette, il 24 giugno scorso, presso la frontiera che divide la città marocchina di Nador dall’enclave spagnola di Melilla. Questo lavoro d’indagine – frutto della collaborazione di più testate giornalistiche – aggiunge nuovi dettagli alle ricostruzioni di un tentativo di attraversamento del confine ispano-marocchino a cui hanno preso parte centinaia di migranti, per la maggior parte sudanesi, e che è finito con il più alto numero di morti mai registrato in un “incidente” ai confini terrestri dell’Unione Europea. Ma la violenza che si vede nelle immagini, pur essendo eccezionale nella sua intensità, fa parte di un continuum che si allunga prima e dopo la frontiera ed è parte del regime europeo dei confini.

Nonostante il ministro dell’Interno del governo Sánchez, Fernando Grande-Marlaska, abbia dichiarato che lo scorso 24 giugno sul lato spagnolo della frontiera non si sono verificate violazioni dei diritti umani e non ci sono stati morti, l’inchiesta giornalistica mostra che i fatti sarebbero andati diversamente. Il video pubblicato sul quotidiano El País ricostruisce come parte dei migranti – esposti a enormi quantità di gas lacrimogeno e lanci di pietre da parte delle guardie di frontiera marocchine – sia rimasta schiacciata nella calca anche nella zona del valico di frontiera amministrata dalle autorità spagnole[1], in cui si sarebbe verificato almeno un decesso. I migranti che sono riusciti a entrare a Melilla – circa 470 in totale – sono stati circondati dalla polizia spagnola, ammanettati, picchiati e respinti in Marocco nonostante la situazione in quel momento fosse estremamente caotica e pericolosa e senza che le loro circostanze venissero esaminate individualmente. Il video mostra come la polizia marocchina ha poi trascinato morti e feriti fuori dalla struttura del valico di frontiera, lasciandoli a terra, sotto il sole, per ore, e alla fine in centinaia sono stati deportati in altre città del Marocco, più lontane dal confine. Per tutta la durata dell’incidente, da entrambi i lati della frontiera, non è stata fornita assistenza medica ai migranti, alcuni dei quali erano visibilmente feriti: secondo le testimonianze raccolte dai giornalisti, le ambulanze si sono avvicinate sul lato marocchino solo per evacuare i cadaveri, mentre su quello spagnolo sono rimaste ben lontane dalla scena dell’incidente per ragioni di presunta “sicurezza”.

Nel dibattito in parlamento che si è tenuto ieri, alla luce di questa nuova ricostruzione dei fatti, molti esponenti politici hanno accusato il ministro dell’Interno spagnolo di aver mentito e di aver lasciato troppo soli gli agenti della Guardia Civil; ma ascoltando il dibattito parlamentare a colpire è soprattutto il rovesciamento proposto dalla retorica elaborata sia dalle forze politiche di destra che dal ministro stesso, in cui i migranti vengono descritti come “assaltatori violenti”. Grande-Marlaska ha infatti dichiarato: “Non ci troviamo di fronte a un problema di diritto d’asilo, […] ma a un attacco violento contro la frontiera”. Questo tipo di retorica rovesciata non è nuova nelle enclave di Ceuta e Melilla dove già in altre occasioni quando gruppi di migranti hanno cercato di attraversare il confine durante i cosiddetti “salti” collettivi delle recinzioni li si è descritti come coloro che esercitano violenza, piuttosto che subirla.

Questo discorso occulta il fatto che al confine terrestre ispano-marocchino opera un meccanismo di profilazione razziale per cui i migranti neri sono tenuti lontani dai valichi di frontiera dalla gendarmeria marocchina e perciò non possono entrare nelle enclave in questo modo e chiedere asilo. È per questo che ricorrono ad altre strategie di attraversamento, come per esempio il salto delle recinzioni, e spesso lo fanno in gruppo perché la frontiera è talmente militarizzata che farlo insieme offre più possibilità di successo.

Infatti, le morti e sparizioni avvenute il 24 giugno sono solo il risultato dell’ultima di una serie di violenze ampiamente documentate presso questa frontiera, basti pensare, per esempio, ai 15 migranti che persero la vita nel 2014 mentre cercavano di raggiungere a nuoto la spiaggia del Tarajal a Ceuta e furono colpiti dai proiettili di gomma della Guardia Civil.

Dipingere i migranti come gli assaltatori violenti è un modo per abdicare alle proprie responsabilità e occultare le molteplici forme di violenza a cui sono sistematicamente esposti dal regime europeo dei confini, non solo sulla linea di questa frontiera, ma anche prima e dopo di essa. Dalle vessazioni subite durante la permanenza in paesi di transito come il Marocco, a cui Spagna e Unione Europea hanno esternalizzato il controllo dei confini, all’immobilizzazione forzata nel territorio delle enclave spagnole per periodi a volte lunghissimi, fino allo sfruttamento nei settori in cui vengono impiegati una volta che sono lasciati passare al di là dello stretto di Gibilterra. Le 23 morti e 77 sparizioni su cui l’inchiesta fa nuova luce sono l’ennesimo, tragico, risultato di politiche migratorie europee di lunga durata, che obbligano donne e uomini migranti a rischiare la vita per il semplice fatto di aver scelto di muoversi, sfidando gli ostacoli e la violenza dei confini UE.

[1] Il 24 giugno scorso i migranti che hanno cercato di attraversare il confine non hanno saltato le barriere di filo spinato che dividono i due paesi ma hanno tentato di passare attraverso il valico di frontiera del Barrio Chino, che era chiuso da più di due anni.

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