A due settimane dal nostro Festival femminista migrante una delle voci che abbiamo invitato a discutere con noi ha ricevuto una “segnalazione”. Non sappiamo chi l’ha inviata, perché chi ci ha segnalate vuole mantenere l’anonimato. Non ne conosciamo i contenuti nel dettaglio, perché ha chiesto che non fossero condivisi con noi. In modo vago, ci hanno fatto sapere che siamo un collettivo in cui il potere non sarebbe gestito orizzontalmente ma gerarchicamente. Che avremmo coperto episodi di violenza maschile nel movimento. Che non saremmo veramente decoloniali, perché esprimiamo la bianchezza del femminismo liberale. Che non saremmo “rappresentative” delle persone razzializzate, tra cui quella che ci segnala. È vero che non la rappresentiamo, visto che non la conosciamo. Soprattutto, noi non vogliamo rappresentare nessuna. Noi siamo un’assemblea di donne e queer; bianche con la cittadinanza o con un permesso di soggiorno in tasca; nere, con e senza cittadinanza; migranti di prima e seconda generazione; lavoratrici, operaie, studentesse. Ognuna si mette in gioco in prima persona, con le altre. Siccome non abbiamo mai fatto politica nei corridoi, nei sotterranei, nei sottoscala e nemmeno nei salotti, ma parlando sempre a viso aperto, abbiamo deciso di rispondere ad alta voce.
Non abbiamo il problema di difenderci dalle accuse che ci vengono fatte. Chi ci ha viste nelle piazze, ha letto i nostri comunicati e ha partecipato alle nostre iniziative ha già tutto quello che serve per giudicare. Vogliamo invece parlare della politica dell’accusa, che ormai da mesi si è diffusa nel movimento femminista e che troppe volte alcune parti del movimento femminista hanno giustificato, lasciando che si diffondesse indisturbata. Noi abbiamo preso posizione più di una volta contro questa politica, perché pensiamo che sia un modo per attaccare ogni percorso di organizzazione collettiva. A chi ci ha segnalate stando al riparo da ogni replica non importa nulla del lavoro delle compagne e sorelle che fanno salti mortali per sfidare la loro precarietà, rompere l’isolamento, costruire percorsi condivisi. Sappiamo che chi ha subito violenza può avere paura di esporsi e il nostro Festival si chiama “Ad alta voce” perché siamo convinte che questa paura si possa sconfiggere collettivamente. Da mesi lo costruiamo come luogo di confronto, in cui esprimere anche il disaccordo su come lottare insieme contro la violenza maschile, razzista e dello sfruttamento, mentre la guerra si diffonde nel mondo e le destre autoritarie incalzano. Abbiamo invitato donne che portano avanti questa lotta in modi differenti: nei centri antiviolenza e coi podcast, con lo sciopero femminista e gli scioperi sui posti di lavoro, dentro e fuori da collettivi e sindacati, oppure con la loro arte. La politica dell’accusa vuole fare a pezzi tutto questo, diffondendo il sospetto del tutto pretestuoso che chi partecipa al nostro Festival vedrà macchiata la propria reputazione. Noi non abbiamo una reputazione da difendere, ma rivendichiamo una pratica collettiva che non teme le calunnie più o meno anonime.
Rivendichiamo una pratica collettiva perché è quella di cui abbiamo bisogno per sfidare la violenza, l’isolamento, la precarietà e il razzismo che viviamo ogni giorno. Alla politica dell’accusa non interessa sfidare queste condizioni, ma solo diffondere paura e affermare il potere di chi, in nome della sua identità nascosta e di un presunta superiorità, pretende di stabilire chi può parlare e che cosa può dire. È una politica che si appella al privilegio della vittima per costruire spazi che si proclamano safer in modo da non doversi porre il problema di sfidare il potere che troviamo nelle nostre famiglie, sui luoghi di lavoro, agli sportelli della questura, per le strade, di fronte alla violenza maschile e razzista sempre più intensa. Si appella ai codici e ai manuali del transfemminismo puro e del decolonialismo perfetto, senza assumersi il rischio della lotta collettiva che passa da assemblee e incontri pubblici, e anche dal confronto con coloro con cui non si è d’accordo.
Questo rischio è invece necessario correrlo per poter fare i conti con le nostre differenze e lottare contro i rapporti sociali che ci opprimono. Solo così possiamo portare avanti una politica trasformativa, senza cadere nel razzismo implicito di chi usa l’accusa del privilegio bianco per insinuare l’idea insopportabile che quelle di noi che hanno la pelle nera siano subalterne al femminismo egemonico di quelle che hanno la pelle bianca. La nostra politica la facciamo a volto scoperto. Per questo abbiamo criticato i movimenti quando hanno riprodotto logiche patriarcali o razziste, e persino il movimento femminista quando ha sostenuto pratiche poliziesche e vendicative speculari a quelle delle destre al governo. Siamo parte di questi movimenti e crediamo che anche scontrarsi sia necessario per costruire percorsi collettivi di comunicazione e di lotta. Le segnalazioni le lasciamo alla Digos, che da sempre produce “informative” sugli elementi pericolosi. Oggi non possiamo accettare che un’accusa anonima possa togliere la voce alle donne e persone queer, migranti e non, che hanno costruito e parteciperanno al Festival, o che sospetti indeterminati possano ostacolare l’organizzazione di cui abbiamo bisogno per opporci al razzismo istituzionale in Italia e in Europa, alla violenza patriarcale e alla guerra che ogni giorno cerca di imporre il silenzio sulle nostre lotte. Per questo al nostro Festival aggiungiamo un frammento di programma imprevisto, e sabato 31 vi invitiamo a un momento aperto di discussione sulle pratiche di denuncia e organizzazione collettiva contro la violenza (comunicheremo l’orario prima possibile), anche in vista dell’assemblea del 14 giugno lanciata su questi temi da Non Una di Meno. Saremo felici se chi ha qualcosa da dire, condividere o criticare verrà a farlo Ad Alta Voce il 31 maggio a Porta Pratello.