LA NORMALE E IGNORATA BRUTALITA’ DELLO SFRUTTAMENTO DEL LAVORO MIGRANTE

È di una settimana fa la notizia di lavoratori migranti sfruttati nei cantieri di mezza Italia per la costruzione di yacht di lusso, costretti a turni massacranti e straordinari non pagati, a lavorare anche in caso di malattia e infortunio, minacciati e picchiati, persino derubati di un salario così misero da sancire la loro assoluta povertà. Qualsiasi fossero le condizioni di lavoro imposte, comunque andavano accettate per poter rinnovare il permesso di soggiorno al cui ricatto le imprese – e il governo – non intendono rinunciare in nome della produttività e del profitto. È passata una settimana dallo sdegno pubblico a mezzo stampa per quella che invece è la normalità dello sfruttamento del lavoro migrante ignorata non soltanto da partiti sedicenti democratici, ma anche da sindacati impegnati a gestire la crisi economica senza far troppo rumore. Per questo inauguriamo una serie di denunce sulle condizioni del lavoro migrante in questa secondo ondata della pandemia nella “progressista” Emilia-Romagna.

Dentro la crisi economica prodotta dal coronavirus i padroni e padroncini della produttiva Emilia-Romagna hanno già trovato il modo per tirare avanti salvaguardando i loro profitti. Mentre in piazza chiedono aiuti e sussidi dal governo, in molti hanno già iniziato a coprire le perdite degli ultimi mesi con qualche vecchio trucco di contabilità o con qualche truffa, rubando direttamente i soldi dalla paga dei lavoratori migranti. Nelle ultime settimane infatti si sono moltiplicati i casi di migranti che dopo aver lavorato non sono stati pagati. Il caso più grave è quello di una nuova azienda di coltivazione di cannabis – la New Weed Order, Social Cannabis Club – che ha assunto tre migranti con un contratto falso. Costretti da un giorno all’altro ad uscire dall’accoglienza dopo aver ottenuto la protezione umanitaria, i tre migranti hanno accettato di non vedere un soldo per due mesi pur di avere quel contratto che era l’unica possibilità per riuscire a trovare casa. Ma dopo due mesi sono stati mandati via senza un euro di paga. Di fronte alle loro insistenze il padrone ha cercato di mettere a tacere la faccenda offrendo loro 250 euro a testa al posto degli oltre 1400 dovuti, ma si è trovato di fronte al loro rifiuto.

Ci sono poi casi in cui i padroni sono appena meno sfacciati e usano i vecchi trucchi del mestiere, limitandosi a trattenere qualche centinaio di euro dal salario mensile. A. lavora come facchino per SDA e ogni mese si ritrova con una ventina di ore di straordinario che non sono calcolate in busta paga e non vengono pagate. Una pratica che nella grande fabbrica dell’Interporto è la normalità per i tanti migranti – in particolare richiedenti asilo – che lavorano con un contratto a chiamata: se ti rifiuti di fare ore di straordinario gratis non vieni più chiamato. M., dopo aver lavorato per anni per un’azienda edile bolognese, è stato costretto a lasciare perché sempre più spesso il suo datore di lavoro trovava un modo per non pagargli tutte le ore lavorate. Ma ci sono anche padroni che approfittano di vie perfettamente legali per rubare soldi ai loro dipendenti. Ormai sempre più migranti e richiedenti asilo vengono assunti con dei contratti di tirocinio: 450 euro di paga, nei casi più fortunati, per lavorare a tempo pieno come magazzinieri o operai. In questo modo il padrone ha anche la sicurezza che terminato il tirocinio gli basterà rivolgersi ai circuiti dell’accoglienza per trovare qualcun’altro disposto a lavorare per pochi soldi. Per le donne migranti il ricatto si gioca anche sull’alternativa tra l’accettare ritmi di lavoro estenuanti che rendono impossibile occuparsi dei propri figli o accettare, nel migliore dei casi, il part-time con un salario che non riesce a pagare cibo e affitto. A L. è stato addirittura proposto un “prestito di ore”, ovvero può uscire prima per andare a prendere il figlio all’asilo, ma dovrà recuperare le ore perse lavorando gratis.

Questa è la brutale normalità dello sfruttamento del lavoro migrante nella seconda ondata della pandemia. Come durante il primo lockdown, donne e uomini migranti continuano a lavorare ininterrottamente nei magazzini, nelle fabbriche e nelle famiglie. Continua la loro esposizione al contagio, aumentano le ore lavorate e si intensifica lo sfruttamento. D’altra parte, i datori di lavoro hanno alleati formidabili nelle istituzioni. Nella Regione, nel Comune e nella Prefettura che continuano a ignorare le richieste di chiudere i grandi centri di accoglienza come il Mattei e che tacciano su possibili contagi solo perché sanno che i centri sono luoghi funzionali al reclutamento di forza lavoro a basso costo che tiene in piedi fabbriche e magazzini. Nel governo che sa bene che buona parte dell’economia e dei profitti, soprattutto durante i lockdown, dipende dalla condizione di ricatto in cui sono tenuti donne e uomini migranti, che devono lavorare ad ogni condizione per sperare di avere i documenti. Non a caso il governo ha modificato le leggi Salvini, ma non ha alcuna intenzione di toccare il legame tra lavoro e permesso imposto dalla legge Bossi-Fini. Con la pandemia questo legame è diventato ancora più opprimente anche perché le questure impiegano sempre più tempo per rilasciare e rinnovare i permessi di soggiorno. È evidente che di questo sono contenti soprattutto i padroni, che così possono continuare a rubare salario con la sicurezza di non essere denunciati e di poter ignorare anche le lettere e le lamentele dei sindacati. Le storie di A., di M. e di L. – come altre storie simili – vanno denunciate pubblicamente per evitare che padroni e padroncini continuino a rubare il salario nel silenzio che il lockdown rischia di imporre su chi, nonostante la diffusione del contagio, è costretto a lavorare.

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