L’8 e 9 giugno non si tratterà solo di mettere un Sì su una scheda elettorale, ma di dare un segnale politico a uomini e donne migranti che rifiutano razzismo, precarietà e sfruttamento come il loro unico destino possibile in questo paese.
È un segnale, sì, ma è un segnale necessario. Anzitutto, per cambiare materialmente la vita di alcune centinaia di migliaia di migranti e dei loro figli e figlie, che vedranno dimezzato il tempo di residenza obbligatoria in Italia per accedere alla cittadinanza. Ma anche per invertire la rotta di politiche razziste che in Albania come nei Cas, nelle strade come nelle questure e nei luoghi di lavoro, fanno delle e dei migranti dei soggetti da criminalizzare e sfruttare e, sempre di più, confinare, reprimere ed espellere.
Abbiamo bisogno di un segnale, perché paura e rassegnazione tengono oggi sotto scacco l’organizzazione autonoma delle e dei migranti. Abbiamo bisogno di strappare una vittoria al razzismo dilagante, ma sappiamo che non basta. Dobbiamo riprendere a organizzarci e lottare per mettere fine alla politica delle deportazioni e delle espulsioni, degli accordi infami con la Tunisia e la Libia, dei permessi di soggiorno che non arrivano mai e del razzismo istituzionale che blocca ogni possibile miglioramento legislativo.
Cosa ce ne facciamo di cinque anni in meno di tempo per avere la cittadinanza, se poi questure e prefetture amministrano i tempi del razzismo a loro piacimento? E cosa ce ne facciamo poi del ‘respiro europeo’ che i paladini del referendum vorrebbero dare alla società italiana, imbellettando i diritti con un po’ di colore? Per noi, l’aria è già abbastanza pesante per metterci di mezzo pure il fetore razzista di questa Europa di guerra.
E, d’altra parte, lo sappiamo. Chi ha promosso il referendum sulla cittadinanza non ha mai smesso di pensare che, per diventare cittadini, donne e uomini migranti debbano superare la ‘prova (culturale) della razza’ e mostrare di essere un valore aggiunto per questo paese. Bisogna sapere l’italiano e bisogna avere un certo reddito, ovvero un lavoro, dice infatti un referendum pensato da chi evidentemente non riesce a cacciarsi dalla testa la legge Bossi-Fini.
Per questo un Sì non basta, ma un segnale lo dobbiamo dare. A volte un pezzo di carta vale più di quello che i benpensanti della democrazia in pelle bianca sono disposti a concedere. Quanto vale veramente non ce lo diranno le urne, ma tutto quello che le e i migranti riusciranno a strappare in termini di libertà di movimento, salario e welfare.