di ASSEMBLEA DONNE DEL COORDINAMENTO MIGRANTI
Il 25 novembre, dopo avere partecipato alle grandissime manifestazioni di Non Una di Meno a Roma e Bologna contro la violenza patriarcale, abbiamo letto il comunicato della Rete Sotterranea Transfemminista che denunciava una violenza di genere compiuta all’interno di un collettivo di movimento, con la complicità dei suoi attivisti e delle sue attiviste. Pochi giorni fa, un altro comunicato di REST ha riportato l’attenzione su un analogo caso avvenuto quattro anni fa a Napoli. Di questi comunicati abbiamo discusso molto, non senza difficoltà, come molte altre compagne impegnate nella lotta contro la violenza patriarcale. Per i fatti che denunciano e per la pratica che attivano questi comunicati ci chiamano in causa. Dopo anni in cui il movimento femminista è esploso a livello globale, in un contesto in cui la guerra e le destre al governo cercano di sopprimere ogni lotta, che cosa significa questa pratica per noi e per le donne in movimento contro la violenza? Questa discussione non può rimanere chiusa nei collettivi, soffocata dal timore di esporre le contraddizioni e le tensioni che produce. A noi non interessano astratti discorsi sul metodo, ma come combattere la violenza patriarcale con una forza comune.
«Sorella io ti credo» per noi è una scelta politica necessaria. Ogni singola donna che denuncia un uomo aggressore alla polizia, in tribunale o parlando pubblicamente è sottoposta lei stessa a processo: «come eri vestita, eri ubriaca, lo hai provocato, hai frainteso…». Per questo molte rinunciano a farlo, per non diventare imputate. «Sorella io ti credo» significa quindi schierarsi dalla parte di chi è stata colpita dalla violenza maschile e dal suo mondo, ma rifiuta di stare in silenzio. Ipotizzare che una presa di parola diffonda «voci oscure e falsità» che potrebbero «screditare la pratica della denuncia», come è stato fatto in risposta al primo comunicato di REST, non riconosce i rapporti di potere che mettono la donna che parla nella condizione di non essere ascoltata. Noi siamo e saremo sempre dalla parte di chi ha subito la violenza.
A partire da qui ci interessa discutere dei problemi che questa denuncia ci ha posto. Non sappiamo se la denuncia è partita dalla sorella che ha subito la violenza o da chi l’ha ascoltata o ne conosce la storia. Sappiamo che viene da un nome comune – Rete Sotterranea Transfemminista – che, pur non volendo essere un collettivo, propone una precisa modalità di presa di parola e azione come strumento politico di raccolta e di espressione della rabbia. Noi questa rabbia la comprendiamo, ma ci chiediamo: dopo il #metoo, dopo lo sciopero transfemminista e le enormi manifestazioni degli ultimi anni, dopo il tumultuoso movimento scatenato dal femminicidio di Giulia Cecchettin, con migliaia di donne e persone queer e trans che non accettano di tacere, quale forza ci dà una pratica politica, per sua scelta sotterranea, che si incarica di sorvegliare e punire gli spazi e i collettivi misti del movimento?
Noi non conosciamo i fatti e le circostanze e non sappiamo se la violenza denunciata a Bologna sia appena avvenuta o sia passata, come nel caso di Napoli. Le domande che ci siamo fatte a riguardo ci hanno messe in tensione, come se il fatto di porcele fosse un passo indietro rispetto all’urgenza di schierarci contro la violenza e da parte di chi l’ha subita. Se ce le siamo poste non è per stabilire una gerarchia tra forme di violenza patriarcale: noi le combattiamo tutte. Come donne migranti, italiane e di seconda generazione, lavoratrici e studentesse, però, per noi conoscere le differenze è necessario per lottare in modo più efficace contro l’oppressione. Ci sono donne che vorrebbero denunciare ma si scontrano con il razzismo istituzionale che lega il loro permesso di soggiorno a quello del marito o del padre. Molte subiscono molestie sessuali sul lavoro ma se si ribellano rischiano di perdere un salario di cui non possono fare a meno. Alcune decidono di rivolgersi a polizia e tribunali, altre non lo fanno per non diventare imputate, altre vivono in luoghi del mondo dove non esiste neppure una legge che formalmente le tuteli. Chiederci come organizzarci e lottare contro tutto questo, cercando di connettere esperienze singolari e collettive, locali e transnazionali, per noi non significa dichiararci un tribunale di giustizia transfemminista che emette sentenze e annuncia punizioni. Condividiamo la rabbia per ogni atto di violenza e per ogni denuncia che rimane inascoltata, ma pensiamo che denunciare e lottare non siano la stessa cosa di punire. Come Elena Cecchettin non crediamo che la punizione sia l’unica risposta a cui possiamo aspirare per sovvertire la cultura patriarcale della violenza. Crediamo che determinare la violenza sia necessario a organizzare una risposta collettiva, perché nessuna debba più avere paura di parlare o essere isolata se lo fa, e per lottare anche contro le condizioni diverse in cui la violenza si riproduce, in modo che «sorella io ti credo» diventi il primo passo per «far tremare la terra dal suo centro».
Le violenze avvenute all’interno di spazi di lotta collettivi ci colpiscono di più, perché ci aspettiamo che dentro a quegli spazi siano condivisi comuni orizzonti di liberazione. Se questi orizzonti si affermano è perché donne e persone queer vi portano un conflitto sociale che non deve essere ignorato. Accade però che lo sia, che le compagne non vengano ascoltate, che i processi di trasformazione che vengono annunciati non siano poi attuati. Di fronte a queste chiusure è necessario continuare a lottare senza pensare che tutte e ciascuno siano complici solo perché appartengono alla stessa “comunità”, ma sapendo che si tratta di innescare una presa di posizione contro la violenza, che deve essere continuamente praticata. Capire come fare è parte della lotta. Noi non abbiamo protocolli di comportamento da diffondere né manuali di giustizia trasformativa da applicare. Crediamo però che nessuna trasformazione possa compiersi in spazi separati o separatisti posti sotto il controllo di una qualsiasi autorità transfemminista. Nessuna ferita sarà inferta al patriarcato se coltiviamo l’illusione di creare comunità “più sicure” mentre fuori da lì milioni di donne continuano a subire una violenza che è ancora invisibile. Non possiamo correre il rischio di pensare che una violenza accaduta negli spazi di movimento sia più grave o scollegata dalle altre, e nemmeno possiamo tacere sulla violenza maschile per tutelare altre lotte o per non screditarle.
Continuiamo a pensare che sia necessario lottare contro la violenza patriarcale in ogni luogo in cui ci è possibile farlo: nel movimento e nei collettivi, nelle fabbriche, nei magazzini e nelle università, nei centri di detenzione per migranti, nelle famiglie italiane e migranti. Non abbiamo ricette o risposte confezionate, ma pensiamo che i modi in cui la violenza è denunciata e combattuta siano un problema che ci riguarda tutte e che dobbiamo discuterli insieme. Con questo testo vogliamo perciò aprire un confronto sulle pratiche di lotta contro la violenza patriarcale anche per fare i conti con le differenze e i disaccordi, forti delle nostre lotte e di quelle che ancora dobbiamo organizzare. Noi pensiamo che sia necessario, e che la politica femminista e transfemminista non possa accontentarsi di scorrere sottoterra, sommersa dalla sempre incombente minaccia della violenza patriarcale, ma debba trovare il modo per emergere e crescere come marea che tutto travolge.